La presidente della Camera Laura Boldrini e il ruolo delle donne in Tv
Dal sito della Camera
http://presidente.camera.it/5?evento=152&intervento=152
Convegno sul tema ‘La violenza sulle donne è un’emergenza. L’immagine e il potere. Istituzioni e media verso il cambiamento’ – Milano, Aula Magna Camera del Lavoro
Buongiorno a tutte e a tutti. Vorrei ringraziare innanzitutto gli organizzatori e le organizzatrici di questo importante incontro:la Camera del Lavoro di Milano, la Cgil,le associazioni di donne milanesi che hanno portato qui stamattina un lavoro di anni. Venerdì e sabato scorsi sono stata in Calabria: per portare il mio sostegno alle sindache in lotta contro la ‘ndrangheta, agli imprenditori che vivono sotto scorta, e per ricordare – in mezzo a centinaia di giovanissimi “nuovi italiani” – che il nostro Paese è pronto per fare un passo avanti sul riconoscimento della cittadinanza. Ve ne parlo perché durante la visita ho vissuto uno dei momenti per me più difficili di questi primi mesi da Presidente.
È stato quando, nell’ufficio della sindaca di Rosarno, ho potuto incontrare i genitori di Fabiana Luzzi, la ragazza non ancora sedicenne bruciata viva da un suo quasi-coetaneo a Corigliano Calabro, alla fine di maggio. Quelli della sua uccisione erano i giorni e le ore in cui la Camera stava ratificando all’unanimità la Convenzione di Istanbul: a Fabiana molti deputati e deputate avevano dedicato il loro intervento, e l’aula si era fermata per ricordarla.
Trovarsi a parlare coi suoi genitori è stato aver di fronte e sentire lo strazio più grande che a un essere umano possa essere dato di vivere. Ripenso alla domanda che mi ha fatto la madre, mentre riponeva le bellissime foto di Fabiana che mi aveva appena mostrato: “Mi dica, Presidente: ma come si può portare una figlia in una borsa?”
Vorrei che tenessimo bene a mente – soprattutto noi delle istituzioni – quel dolore, quando sentiamo i dati sul femminicidio. Già 60 sono state le donne uccise dall’inizio dell’anno nel nostro Paese. Una strage – di questo si tratta – che prosegue inesorabile, metodica, indisturbata: il rapporto Eures dice che tra il 2000 e il 2011 i femminicidi in Italia sono stati 2061, su un totale di 7440 omicidi. E di questi 2061, ben 1459 sono stati quelli maturati in ambito familiare. Un'”emergenza”, se con questa parola si intende un fenomeno gravissimo;ma non se si intende qualcosa di inaspettato, imprevedibile, perché gran parte dele donne uccise aveva già fatto una denuncia. Donne uccise in quanto donne, perché la loro autonomia è stata ritenuta insopportabile da mariti, compagni, fidanzati, ex-fidanzati.
Di questo parliamo, quando parliamo di femminicidio. Una parola nuova, per esprimere una nuova consapevolezza. Lo ha detto qualche settimana fa sul suo sito l’Accademia della Crusca, rispondendo a chi chiedeva se avesse senso sottolineare nel linguaggio il sesso di una vittima. Il fatto è – scrive l’Accademia – che alla base di questi delitti “c’è la concezione condivisa della “femmina” come un nulla sociale. Insomma non si tratta dell’omicidio di una persona di sesso femminile, a cui possono essere riconosciute aggravanti individuali, ma di un delitto che trova i suoi profondi motivi in una cultura dura a rinnovarsi e in istituzioni che ancora la rispecchiano, almeno in parte”.
La cultura e le istituzioni: questi i due piani di azione sui quali dobbiamo muoverci. Quello culturale e sociale, e poi quello normativo e istituzionale. A me, nella responsabilità che da quattro mesi esercito, compete soprattutto occuparmi del secondo livello. Ma so bene che nessuna nuova norma ha senso se non cammina insieme ad un profondo cambiamento del nostro modo di pensare, parlare, guardare.
Parto da qui, dunque, dal livello culturale. Perché il rispetto della donna è un fatto che passa anche dall’uso della lingua e dell’immagine. Faccio appena un accenno all’uso sessista della lingua. Ogni volta che si deve offendere una donna è immancabile il riferimento ai presunti comportamenti sessuali della stessa. Qualunque sia il ceto sociale di appartenenza, qualunque sia il grado di istruzione, qualunque sia la natura della discussione, l’uomo (anche giovane, purtroppo) di norma non ribatte sullo stesso terreno, ma sposta il piano su quello dell’offesa sessuale. Non è solo una mia constatazione. È la Corte di cassazione che lo afferma, in una sentenza dello scorso mese di gennaio. L’ho menzionata perché “porre le donne in condizione di marginalità e minorità” – come dice la sentenza – è uno degli effetti che ha ottenuto e ottiene parte della comunicazione.
Il gioco lo abbiamo capito e svelato. La denuncia fatta riguardo all’uso offensivo del “corpo delle donne” (cito anche io il video di Lorella Zanardo) è stata uno dei segni di risveglio più potenti arrivati dalla società italiana di questi anni. La denuncia di uno stereotipo di donna del tutto irrealistico e regressivo, esasperato nelle sue caratteristiche femminili, persino modificato con le più sofisticate tecnologie di ritocco dell’immagine, per cui talvolta capita – con effetti involontariamente paradossali – che le proporzioni del corpo siano totalmente innaturali. Un corpo che diventa un oggetto di visione, decorativo, allusivo e ammiccante, mercificato e degradato.
“Sii bella e stai zitta”, come dice il titolo di un libro della filosofa Michela Marzano, deputata in questa legislatura. Un oggetto – non un soggetto – al pari dei prodotti di cui promuove la vendita. Torno a sottolinearlo, come ho già fatto in questi mesi: è una nostra negativa anomalia, questa deformazione pubblicitaria della donna. In giro per l’Europa non è abituale usare donne seminude per vendere yogurt, televisori, valige.
Così come sarebbe difficile vedere in onda uno spot in cui papà e bambini stanno seduti a tavola, mentre la mamma in piedi serve tutti.
Per chi giustamente si preoccupa dell’immagine internazionale dell’Italia, queste immagini sono un problema. Come donne lo sappiamo. Ma la soluzione non si troverà finché saranno solo le donne a discuterne; finché non si comprenderà che il problema della sottorappresentazione e della rappresentazione offensiva della donna ha una dimensione maschile – di educazione al rispetto – che riguarda in primo luogo gli uomini. Questa rappresentazione regressiva della donna, infatti, è un ostacolo alla complessiva maturazione della società, specialmente nella sua componente maschile, a sua volta prigioniera di immagini e modelli del tutto irrealistici. Ed è anche nello scarto tra questi stereotipi e la carenza di strumenti culturali per elaborare una realtà quotidiana spesso difficile, che si annidano i germi del rancore e della violenza.
Come uscirne, come concorrere a produrre una nuova cultura? Innanzitutto nel dialogo tra i diversi soggetti coinvolti, come state facendo con l’iniziativa di oggi. Mettere a confronto con le voci della società civile le donne e gli uomini che creano pubblicità e fanno televisione, e tra i quali si stanno facendo strada – come abbiamo sentito anche stamattina – le domande che tante donne hanno posto da anni. Lo ricordava qualche giorno fa, proprio qui a Milano, Annamaria Testa all’Assemblea annuale dell’UPA (Utenti pubblicità associati, l’organismo che riunisce le più importanti aziende che investono in pubblicità): «educare non è compito della pubblicità. Devono farlo le famiglie, la scuola, le istituzioni. Ma – aggiungeva – la pubblicità può e oggi forse dovrebbe dare una mano, proprio perché è così efficace».
E per aiutarci a rappresentare più fedelmente l’universo femminile può fare moltissimo anche la tv, in un Paese in cui la televisione costituisce ancora la prima fonte di informazione e intrattenimento per la gran parte dei cittadini. In particolare la televisione di servizio pubblico, il cui pluralismo non può essere soltanto quello (pur essenziale) della equilibrata presenza delle forze politiche. C’è una par condicio che viene violata assai più frequentemente, ed è quella tra i generi e la loro rappresentazione. Qualche segnale importante però sta arrivando: penso alla decisione della Rai di rinunciare quest’anno a Miss Italia, per la quale ho già espresso il mio apprezzamento alla Presidente Tarantola. Qualcuno si è lamentato di questa scelta,come se si trattasse dell’imposizione di un clima di austerità cupa e bacchettona.
Io credo invece che ci si debba rallegrare di una scelta moderna e civile, e spero che le ragazze italiane possano avere, per farsi apprezzare, altre possibilità (anche televisive) che non quella di sfilare numerate. E mi auguro che il servizio pubblico sappia trovare anche forme di collaborazione con la scuola italiana proprio sul tema che oggi stiamo affrontando. Perché c’è bisogno di far crescere i nostri ragazzi anche nella capacità di decifrare i messaggi dei media, di “smontare” gli spot e i programmi dei quali sono intensi consumatori. C’è bisogno di ragionare insieme a loro sul modello di donna-oggetto che dallo schermo insistentemente viene proposto. Anche per questa via si può insegnar loro il rispetto delle coetanee ed evitare che diventino adulti violenti. Perché, se la donna viene resa oggetto, da lì alla violenza il passo è breve.
L’altro piano di intervento è il piano normativo e istituzionale, ed è quello sul quale, come Presidente della Camera, sono chiamata all’impegno più diretto.
Con la ratifica della Convenzione di Istanbul sulla violenza domestica un primo importantissimo passo è già stato mosso. Ora bisogna costruire un quadro giuridico coerente, partendo dalla conoscenza e dalla diffusione delle regole che già esistono.
In primo luogo, le regole europee. La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea vieta qualunque forma di discriminazione fondata in particolare sul sesso. In modo più diretto era intervenuta, già nel 1989, la c.d. direttiva “Televisione senza frontiere”, poi rafforzata da una direttiva successiva. E ancora più esplicita è la risoluzione approvata dal Parlamento europeo nel 2008 e interamente dedicata all’impatto del marketing e della pubblicità sulla parità tra uomini e donne. “La pubblicità e il marketing riflettono la cultura e contribuiscono altresì a crearla”, dice l’Europarlamento, e chiede perciò codici di condotta che proibiscano messaggi discriminatori o degradanti basati sugli stereotipi di genere. L’Europa ci chiede anche questo, non soltanto di essere in regola coi parametri finanziari.
In Italia mancano ad oggi leggi specifiche, nonostante la Costituzione offra, in più articoli, un solido ancoraggio all’intervento del legislatore a tutela dell’immagine e della dignità della donna. L’unica norma statale alla quale è possibile fare attualmente riferimento si trova nel Testo unico dei servizi di media audiovisivi e radiofonici. Tra i suoi principi generali c’è quello per cui le pubblicità non devono pregiudicare il rispetto della dignità umana e non devono contenere discriminazioni fondate sul sesso. Su tali principi, come è noto, è chiamata a vigilare l’Autorità garante per le comunicazioni.
E’ chiaro che, in assenza di una legge, ci sono stati interventi di supplenza. Un esempio è il Codice di Autodisciplina della Comunicazione commerciale, promosso dall’Istituto dell’Autodisciplina Pubblicitaria, che ha recepito i contenuti della risoluzione del Parlamento europeo del 2008. Non mancano, d’altro canto, esempi di buone pratiche da parte degli enti locali. Cito per tutti la legge del 2009 della Toscana sulla “Cittadinanza di genere”, con la quale la Regione intende attivarsi anche per eliminare gli stereotipi. E decisamente significative sono le esperienze maturate a livello comunale. Ho sentito e apprezzato il gran lavoro che proprio qui a Milano avete fatto, e che due settimane fa ha portato la Giunta di Palazzo Marino ad approvare le nuove regole per la valutazione dei messaggi da affiggere sugli spazi in carico all’Amministrazione comunale.
Questi provvedimenti hanno una valenza particolarmente importante, perché sono il frutto di un rinnovato impegno da parte delle donne, che tornano ad essere protagoniste. Non è censura moralistica, come qualcuno ha tentato e tenterà di affermare, ma è una battaglia per la libertà e l’inviolabilità della persona.
E sono importanti anche perché sollecitano il Parlamento ad adottare una legislazione condivisa. Il tempo è maturo per pensare ad una legge basata sui princìpi forti espressi dalla nostra Costituzione e dal diritto europeo. Ad oggi sono state già presentate alla Camera due proposte di legge (sulla pubblicità ingannevole che altera l’apparenza fisica e sulla tutela della dignità della donna nella pubblicità e nella comunicazione). Analoghe iniziative sono state presentate al Senato. Spero, anzi credo, che un Parlamento composto in larga parte da giovani,e con una rappresentanza femminile decisamente più significativa rispetto al passato, vorrà farsi carico di mettere il tema in agenda e di fare un altro passo in avanti nella tutela della dignità delle donne.
Lo dobbiamo a Fabiana, lo dobbiamo alle tante donne che non ci sono più, lo dobbiamo a noi stesse.
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